Con la sentenza del 15 febbraio 2016, n. 29290, la Suprema Corte, sezione lavoro, ha respinto la richiesta di risarcimento avanzata nei confronti del Ministero della Giustizia, da una dipendente (di una Casa Circondariale) che si doleva delle precarie condizioni lavorative in cui era costretta a prestare la propria attività lavorativa, oltre che di una più generale volontà afflittiva dell’Amministrazione nei suoi confronti.

Preliminarmente i Giudici di legittimità hanno evidenziato che l’azione proposta dalla ricorrente era una domanda di risarcimento danni da mobbing, mentre le censure presentate presupponevano domande diverse da quelle effettivamente proposte che, in ogni caso, tendevano a introdurre temi di indagine “estranei” alla nozione di mobbing.

La Corte di Cassazione ha allora precisato che: le “carenze gestionali e organizzative” che definiscono “una situazione di portata generale, sono palesemente e del tutto estranee ai parametri idonei a integrare una situazione di mobbing”.

Come noto, il fenomeno del mobbing, per assumere rilevanza giuridica implica l’esistenza di plurimi elementi di natura sia oggettiva sia soggettiva e, fra questi, l’emergere di un intento di persecuzione, che “non solo deve assistere le singole condotte poste in essere in pregiudizio del dipendente, ma anche comprenderle in un disegno comune e unitario, quale tratto che … giustifica la tutela della vittima”(v. Cass. civ. del 6 agosto 2014, n. 17698).

Nel caso di specie, quindi, il rigetto del ricorso è stato motivato dalla mancanza d’immediata connessione tra la prova dell’elemento intenzionale o psicologico e la “prestazione lavorativa particolarmente stressante” oltre che le “disfunzioni organizzative”, non potendo in alcun modo ravvisare una volontà persecutoria unificante e “un filo conduttore che sia tale da deporre per una condotta di persecuzione e prevaricazione”.