1. Introduzione

Tema di assoluto rilievo negli ultimi anni è il Mobbing (dall’inglese [to] mob «assalire, molestare») che, se nel linguaggio comune vuole significare un insieme di comportamenti aggressivi di natura psicofisica e verbale, esercitati da un gruppo di persone nei confronti di altri soggetti, in diritto del lavoro si identifica con una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico sistematica e protratta nel tempo tenuta nei confronti del lavoratore.

Questa condotta è perpetrata negli ambienti di lavoro e si risolve in comportamenti ostili che finiscono per l’assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica da cui può conseguire la mortificazione materiale e l’emarginazione del dipendente con effetto lesivo del suo equilibrio psicofisico e del complesso della sua personalità.

Sulla nozione di mobbing, la sua definizione ed una eventuale configurabilità del fenomeno si è nuovamente pronunciata la Suprema Corte con sent. n. 11777/2019.

La Cassazione si è particolarmente soffermata sull’importanza dell’elemento soggettivo del datore di lavoro, e cioè il porre in essere atteggiamenti persecutori ingeneranti terrorismo psicologico con coscienza ed intenzione di provocare danno al dipendente.

  1. La rilevanza dell’elemento soggettivo

L’ordinamento del lavoro italiano non è dotato di una disciplina legislativa specifica ad hoc, Il mobbing ha trovato un argine grazie ad un’attività meramente giurisprudenziale che si è andata stratificando nel tempo.

Il fondamento normativo è l’art. 2087 del c.c. il quale impone al datore di lavoro di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Sulla base di questa disposizione la giurisprudenza ha iniziato a costruire, partendo dai singoli casi concreti, una nozione generale sia gli elementi costitutivi del mobbing. Tra questi, ad oggi, rientra l’elemento soggettivo del datore di lavoro, cioè la volontà di nuocere al dipendente attuando la strategia emarginante e mortificante di cui si è detto.

 

Si riportano di seguito le pronunce della Suprema Corte che ha dettato, nel corso degli anni, le linee guida in materia.

Cass. n. 11777/2019

La responsabilità del datore di lavoro di cui all’art. 2087 è di natura contrattuale, per cui, ai fini del relativo accertamento, sul lavoratore che lamenti di aver subito a causa dell’attività lavorativa svolta un danno alla salute, incombe l’onere di provare l’esistenza del danno e la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo  Inoltre, (v. Cass. lav. n. 26684 del 10/11/2017) l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto. A tal fine la legittimità dei provvedimenti può rilevare, ma solo indirettamente, perchè, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo, che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata. Parimenti, la conflittualità delle relazioni personali esistenti all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore.

Cass. n. 3788/2009

Incombe al lavoratore, il quale lamenti un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale nocumento, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’uno nell’altro elemento, mentre spetta al datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le anzidette circostanze – l’onere di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di avere adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo.

Cass. Sent. n. 856/2012

Se, in assenza di una definizione normativa, per “mobbing” si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, occorre che si manifesti con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, e cioè con un intento vessatorio finalizzato alla persecuzione del lavoratore.

Cass. Sent. 815/2012

La sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata dall’accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l’elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione, emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito imprescindibile ai fini dell’enucleazione del mobbing.