Con la sentenza del 27 ottobre 2015, n. 21875, la Suprema Corte si è nuovamente espressa sulla legittimità della scelta del datore di lavoro di licenziare un lavoratore nell’ipotesi in cui, quest’ultimo, non aderisca alla proposta di riduzione dell’orario di lavoro.
L’arresto della Suprema Corte ha precisato che “il datore di lavoro che licenzi il lavoratore che rifiuta la riduzione di orario ha l’onere di dimostrare che sussistono effettive esigenze economico-organizzative in base alle quali la prestazione non può essere mantenuta a tempo pieno, ma solo con l’orario ridotto, nonché il nesso causale tra queste e il licenziamento”.
La Corte di Cassazione ha quindi confermato la possibilità di proporre la conversione del rapporto di lavoro in part-time a titolo di repechage e di procedere al licenziamento in caso di rifiuto del lavoratore, tuttavia “la norma nazionale, interpretata alla luce di quella comunitaria impone di ritenere che il datore di lavoro che licenzia il dipendente, il quale abbia rifiutato una riduzione oraria, deve dimostrare l’ imprescindibilità della modifica dell’impegno lavorativo ai fini dell’esclusione di un licenziamento, a fronte di effettive esigenze economiche ed organizzative”.
In proposito, appare opportuno ricordare che anche il “recente” art. 8, comma 1, del Decreto Legislativo del 15 giugno 2015, n. 81, ha ribadito che “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”.
In tal senso, anche la Direttiva CE del 15 dicembre 1997, n. 81, chiariva che il rifiuto del lavoratore alla modifica del proprio orario di lavoro, pur non costituendo di per sé motivo valido per licenziamento, non poteva precludere “possibilità di procedere ai licenziamenti per altre ragioni, come quelle che possono risultare da necessità di funzionamento dello stabilimento considerato”.